Sono passati solo due anni dall’ultimo evento alluvionale e 18 vite perdute non sono bastate per imparare la lezione. Come nel 2013, Olbia l’altro ieri è stato il comune isolano che ha patito i maggiori danni per l’esondazione di alcuni torrenti cittadini, gli stessi che uscirono dagli argini 2 anni fa con conseguenze che mai dimenticheremo. A provocare il nuovo evento alluvionale è stata una depressione mediterranea stazionaria per 48 ore tra Baleari e Mar di Sardegna, posizione questa che in passato ha spesso causato guai, ed evolutasi nel momento clou in “tempesta tropicale“, un evento tipico di latitudini esotiche ma che si ripresenta sempre con maggior frequenza negli ultimi anni in virtù di un Mediterraneo sempre più caldo.
La tempesta è però solo la goccia che fa traboccare il vaso perchè, si sa, la particolare morfologia sarda unita alla sua posizione al centro del Mediterraneo la rendono particolarmente soggetta a questi eventi e per di più sull’isola l’80% dei comuni ha almeno una porzione del suo territorio ad elevato rischio idrogeologico; 280 kmq di territorio presentano superfici a pericolosità di inondazione. Ma la lista continua e, come ricorda il presidente dell’Ordine dei geologi della Sardegna Davide Boneddu, «In Sardegna i ponti stradali che in caso di eventi meteorologici intensi potrebbero essere causa di inondazioni sono 337, mentre sono 15 i ponti ferroviari, 128 edifici costruiti in aree di pertinenza fluviale, 44 strutture fognarie sono ancora insufficienti, 31 opere di difesa del suolo non sono più efficienti o non sono correttamente manutenute, 198 sono i punti di alvei o fiumi che necessitano di manutenzione»
Con un territorio in queste condizioni ed oltremodo oltraggiato dalla mano pesante ed invadente dell’uomo l’alluvione non rappresenta un evento eccezionale, un emergenza o una calamità inattesa bensì un film con lo stesso copione che, in autunno, rivediamo costantemente. Cambiano, di poco, le aree interessate ma gli effetti sono sempre gli stessi e quando va male ci scappa pure il morto.
Va anche detto che di fondi per la messa in sicurezza e la tutela del territorio se ne vedono sempre troppo pochi, sproporzionati per difetto ai danni registrati o ai lavori da eseguire. Il governo nazionale, ad esempio, con il Piano nazionale 2015-2020 contro il dissesto idrogeologico, presentato in estate, ha stanziato appena 1,303 miliardi di euro, racimolando in gran parte risorse già previste e non spese. Per quanto riguarda la Sardegna la maggior parte dei fondi andranno a finire ad Olbia, nonostante non sia certo l’unico comune da mettere in sicurezza, e si parla di soli 16,2 milioni di euro.
Legambiente sottolinea che «Con l’autunno e la pioggia, insomma, arrivano puntuali gli stati di emergenza per rischio idrogeologico, che vanno a sommarsi a quelli già dichiarati e non ancora chiusi. Da maggio 2013, secondo i dati di Italia Sicura, sono infatti 40 gli stati di emergenza aperti, di cui 14 ancora in corso. E i danni legati alle emergenze idrogeologiche degli ultimi 16 mesi ammontano a 7,9 miliardi di euro»
Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente, prosegue «sono numeri che stanno aumentando rapidamente viste le numerose emergenze che si stanno verificando e le allerte previste per i prossimi giorni. Nei mesi scorsi il governo è riuscito a rendere disponibili 600 milioni di euro, su un primo piano operativo di 1,3 miliardi di euro, per avviare i cantieri in alcune delle aree metropolitane a maggior rischio. Sono un’importante e positiva novità, ma rischiano di essere insufficienti rispetto all’ingente mole di danni e alla diffusa presenza di territori a rischio in Italia. Bisogna invertire le voci di spesa, destinando maggiori fondi alla prevenzione per diminuire i costi delle emergenze. Questo si può fare solo mettendo al primo posto la qualità nella progettazione e con un nuovo approccio. Gli interventi strutturali di difesa passiva devono lasciare il posto a misure di rinaturalizzazione o riqualificazione, delocalizzazione delle strutture presenti in aree di pertinenza fluviale o a rischio frana, favorire l’esondazione naturale dei fiumi, incrementare la permeabilità dei suoli, laddove è stata compromessa, mantenere quanto più possibili le condizioni di naturalità degli ecosistemi o azioni di rimboschimento di versanti per la gestione delle frane. In questo modo gli interventi garantiscono anche una migliore risposta agli eventi climatici estremi, mettendo in campo quella politica di adattamento che nel nostro Paese stenta ancora a partire».
Per il momento, le esperienze passate ci inducono a pensare che la luce in fondo al tunnel del dissesto idrogeologico è ancora piuttosto lontana.